Charlotte Pfeifer, classe 1976, è direttrice teatrale, attrice, produttrice ed autrice. Ama combinare realtà teatrali con arti visuali, musica e coreografie, spesso all’esterno, in spazi pubblici. Allestisce anche dei workshop aventi come scopo quello di stimolare la creatività dei partecipanti, sia per adulti che per bambini. Charlotte ha iniziato a lavorare alla Schule für Schauspiel Hamburg come attrice, nel mentre, studiava lettere e filosofia presso l’Universität Hamburg. Al momento, l’artista crea pezzi teatrali esclusivi: come performer solista, assieme a grandi compagnie varie, oppure con l’Artists-Group Traummaschine Inc. Altre volte ricopre il ruolo di attrice per altre direzioni; ciò le ha permesso di lavorare in varie parti della Germania (Hamburg, München, Düsseldorf, Berlin, Schleswig Holstein).
Insieme ad Enzo Mirone ha condotto il workshop di Quartieri di Vita, Life infected with Social Theatre, un progetto di EUNIC Roma e Napoli e di Fondazione Campania dei Festival, presso la scuola civica Alma D’Arte.
Abbiamo posto a Charlotte qualche domanda per raccontare questa esperienza.
Raccontaci dell’esperienza Quartieri di Vita, Life infected with Social Theatre ad Alma d’Arte. Cosa ti aspettavi e cosa porti a casa?
A dire il vero non mi aspettavo davvero niente, ho cercato di avere una visione di cosa sarebbe successo. Quindi non avevo altra scelta che essere aperta a qualunque cosa sarebbe successo. Ma sono rimasta piuttosto sorpresa di come tutto sia andato bene alla fine, di come Enzo, io e il gruppo ci siamo collegati, di come siamo riusciti a trovare qualcosa di bello in pochissimo tempo. Ho portato a casa tante nuove esperienze e sono ancora un po’ travolta dalla bellezza della Campania e dalla gentilezza delle persone.
Ovviamente ho portato a casa anche una bottiglietta di Stregha, e ho intenzione di berla nel giorno più piovoso e grigio. Per un’anima nordica come me il dicembre nel sud Italia è stato davvero caldo e soleggiato, e voglio ricordarlo bevendo questo strano liquore giallo.
Nel workshop che hai condotto insieme ad Enzo Mirone, avete sviluppato il lavoro sul concetto di “riparare/reparieren/repare”, sul tempo che ci vuole per riparare. Come si è sviluppata la ricerca? Come avete stimolato l’interazione dei partecipanti oltrepassando i limiti fisici e le barriere che potevano esserci?
Ho avuto questa idea di riparare, perché mi piace il concetto di non buttare via o di non arrendersi così facilmente. Ma a volte un’idea è solo un’idea… il giorno del mio arrivo abbiamo trovato questa porcellana in un negozio dell’usato a Benevento- è per il tè o per il caffè, non so, con sù dipinto questo drago su ogni tazzina. Quindi ci siamo posti l’obiettivo di rompere una tazza al giorno, anche se all’inizio ci è costato un bel po’ di fatica. Ma poi si è scoperto che distruggere era molto più divertente per tutti che riparare e il nostro dolce combattimento con il drago di porcellana era l’argomento più fruttuoso.
La questione del tempo resta però interessante: fare teatro con persone con fragilità o con persone senza fragilità non fa così tanta differenza come qualcuno potrebbe pensare. Penso che la differenza principale sia il tempo necessario. Nel nostro progetto speciale abbiamo avuto solo 10 giorni per metterci in contatto e sviluppare qualcosa che siamo stati in grado di mostrare alla fine. Quindi abbiamo dovuto sbrigarci e rallentare nello stesso momento. Ma ha funzionato, perché tutti erano così pazienti e premurosi, tutti sembravano sentirsi responsabili l’uno dell’altro, anche se tutti nel gruppo avevano abilità e idee molto diverse. Questo è sicuramente qualcosa che le persone “senza handicap” possono imparare nei gruppi inclusivi: la pazienza e la capacità di prendersi cura gli uni degli altri è ciò che spesso le persone diversamente abili sembrano avere in vantaggio.
La sera della perfomance hai detto che “Alma d’Arte è un luogo utopico”. Che significa? Che ruolo potrebbe avere l’arte in un territorio extra urbano come il nostro?
Vivo in un piccolo villaggio nel nord della Germania e so che non è così facile realizzare progetti culturali o artistici in spazi rurali: non è così facile raccogliere fondi per questo e a volte non è così facile far crescere l’interesse della gente per le cose artistiche. Quello che ho visto ad Alma D’Arte era un gruppo di persone che si sentivano responsabili di portare alla comunità progetti artistici e socioculturali, potevano fare affidamento gli uni sugli altri e il luogo che hanno creato sembra funzionare davvero: le persone lo possiedono e usano questo spazio per le loro attività. Un luogo in cui le persone possono entrare in contatto tra loro – questo è qualcosa di molto importante di questi tempi. Ad Alma D’Arte l’arte sembra essere uno strumento di montaggio, e allo stesso tempo il montaggio è uno strumento per portare l’arte alla gente. Uno non funziona qui senza l’altro. Spero che questo posto possa crescere e vivere a lungo.